Al Clan “Gran Sasso”- Agesci Te1,
perché sappia tendere al mare.
PROLOGO
Da
piccolo ero bravo in geografia. A undici anni ho capito tutto della vita.
La
mia storia inizia una mattina di nuvole, in un’aula di scuola, quando avevo
undici anni ma non avevo ancora capito niente della vita; però avevo undici
anni, e quindi non lo sapevo. Non so dire se la geografia fosse davvero la mia
materia preferita, ma mi piaceva la professoressa. A lei non l’ho mai detto
comunque. Un giorno disse: «Sergio vieni alla lavagna?»
Era
una di quelle professoresse che ti chiamavano per nome e ti chiedevano se
volevi andare all’interrogazione. Nessuno rispose mai di no, ma forse era
possibile rifiutarsi se lei lo chiedeva. Non lo sapremo mai. Io mi sentii goffo
nel mio grembiule così poco da adulto ma sapevo che c’era un modo per
conquistarla come io soltanto sapevo fare in quella classe: conoscere la
geografia.
Non
ricordo ciò che mi chiese ma rammento quello che trovai, in mezzo al mio libro
aperto sul banco, quando tornai al posto. Un biglietto strappato da un foglio
di quaderno, piegato due volte. Ciascun banco era separato da quelli vicini, di
modo che non si potesse chiacchierare con il compagno di fianco e non si
potesse copiare. A undici anni sapevamo già cosa volesse dire copiare.
“Presentati
alla casa abbandonata con le finestre verdi sulla strada del bosco oggi
pomeriggio alle quattro e mezza. Vieni da solo e non parlarne a nessuno, ho una
proposta per te. Ammiraglio A.E., Regia Marina.”
Avevo
già due occhiali spessi così all’epoca e dietro i vetri, uno sguardo di
meraviglia e timore allo stesso tempo. Chi era quest’Ammiraglio che si celava
dietro ad una sigla? Quale proposta poteva avere per me? Avevo un solo modo per
scoprirlo e decisi quindi che non avrei mancato l’appuntamento. Ripiegai con cura
il biglietto secondo le pieghe originali perché già allora ero una persona
ordinata e lo nascosi in tasca. Se la
Marina aveva una missione da affidarmi i miei compagni di
classe non potevano di certo saperlo. Non avrebbero capito, erano solo dei
ragazzini.
Da
piccolo ero bravo in geografia, lo ripeto, e cosa volesse un Ammiraglio della
Marina di sua Maestà il Re d’Italia da un “uomo” di undici anni che in vita sua
il mare non lo aveva mai visto, non potevo proprio immaginarlo.
I
Pedalai
più forte che potevo, perché sapevo dov’era quel fabbricato; pensai più forte
che potevo perché non conoscevo quello che mi aspettava. Uscii da casa come si
sente un ladro, intimorito all’idea che mia madre potesse chiedermi dove stessi
andando. L’Ammiraglio mi aveva chiesto di andarci da solo e di non parlarne a
nessuno, e così feci, rispettando il primo ordine che avevo ricevuto.
Spinsi
il cancello di ferro che portava due iniziali e cercando di inquadrare tutta la
struttura in un solo sguardo notai un’insegna spezzata sulla porta: “Regina
Mari”.
Bussai
alla porta di legno e dall’interno sentii: «Chi va là?»
Infilai
sotto il portone il biglietto che avevo trovato sul banco, la mattina stessa.
Il rumore dei chiavistelli seguì e il cuore mi batteva a mille, riesco ancora a
ricordarlo dopo tutti questi anni. Quando vidi Francesco e Piero armati di
ridicole spade di legno non sapevo se essere deluso o cos’altro.
Erano
due compagni di classe ma si presentarono aggiungendo al loro nome un grado di
Tenente che a me sembrò improbabile. Capivo sempre meno di quello che stava
accadendo. «L’Ammiraglio ti aspetta sul ponte, due piani più su.»
Mi
disse il Tenente Francesco. L’Ammiraglio avrebbe saputo spiegarmi e quindi
salii le rampe fino a una porta che dava sul tetto, ma non capivo perché
l’avessero definito ponte.
L’Ufficiale
che mi attendeva altri non era se non Antoine, un altro compagno di classe
ripetente. Intuii che quella storia della Marina era un bluff.
«Benvenuto
Sergio sulla mia nave, la Regina Mari ,
sono l’Ammiraglio Antoine e ti accordo il permesso di salire a bordo. Marinaio
– chiamò un altro ragazzino che non conoscevo – raduna la ciurma, dobbiamo
accogliere un ospite.»
Ad
un certo punto si radunò sul terrazzo, ampio come un mezzo campo da calcio, un
numero di ragazzi che conoscevo solo in parte. Non avevo molti amici allora.
L’Ammiraglio mi presentò tutti, schierandoli in riga secondo i gradi che erano
a loro attribuiti e mi spiegò che sulla sua nave mancava un cartografo, colui
che conosce le carte e traccia la rotta e lui aveva pensato a me. Pensai che
fosse un gioco, dopotutto avevo undici anni, ma quella come altre era una
convinzione sbagliata.
Va
detto che il terrazzo era addobbato davvero come un ponte di una nave con il
meglio che i ragazzi avevano trovato qua e là, un lenzuolo faceva da vela su un
albero maestro improvvisato con un tubo e c’erano cime dovunque, una fila di
ciocchi su entrambi i lati del terrazzo erano i cannoni temibili ma la cosa più
bella era un’altra.
Un
coperchio di bidone legato al retro di una sedia. Il timone.
Fu
così che iniziò il mio servizio a bordo della Regina Mari come Sottotenente e
cartografo di bordo.
II
Fra
le varie cose che ricordo di quell’esperienza ce n’è una in particolare che mi
sembra la più poetica. Una cosa che ho imparato sulla Regina Mari è che la
poesia, per fare un inciso, non bisogna cercarla;
bisogna trovarla nelle cose che ci
accadono intorno o che facciamo accadere. È questa una rotta sicura, per dare
valore alle nostre vite. Nel buio c’è sempre un colore, anche se non si vede.
Tra
l’equipaggio e gli ufficiali della nave nessuno aveva più di dodici anni e per
questo motivo dopo le sette di sera (le otto durante l’estate) questo vascello
non navigava più perché le madri erano a casa reclamando i figli appena si
approssimava il buio.
Si
sa però che esiste un indissolubile legame fra i marinai e le stelle. La poesia
fu che all’equipaggio della Regina Mari era dato di conoscere una sola stella:
Venere. Tecnicamente è un pianeta e forse qualcuno di bordo lo sapeva ma non
importava, c’era dell’altro per noi. Tenevamo alla sostanza, come quella volta
che tentando di disincastrare l’ancora da uno scoglio nel giardino un marinaio
trovò l’altra metà dell’insegna sulla porta: “Regina
Mario e figli, Colletti e Camicie ”, si leggeva ricomponendole. Non
cambiò poi tanto comunque.
Insomma
quello era l’unico astro luminoso che dal pomeriggio già si faceva strada nel
cielo del tramonto e il solo che ci era dato di vedere e che sul far della sera
si sarebbe perso nell’immensità del giardino celeste. Ma fin quando eravamo sul
ponte della Regina Mari era chiaro quale fosse, era l’unica luce. Non si
dovrebbe perdere mai una stella sicura e ciascuno dovrebbe trovare la sua.
Avevamo questo rapporto intimo, che non è cosa comune per un uomo guardare in
faccia una stella e dire: è la mia.
Era
solo per noi ed era la più bella e ogni giorno l’Ammiraglio annunciava il suo
arrivo, guardando dentro ad un cilindro di cartone e noi tutti ci fermavamo per
renderle onore con il saluto militare. Questa è un'altra cosa che ho imparato
sulla Regina Mari, l’Onore. Sta di fatto che Venere sorgeva dritta di fronte al
timone; in direzione del mare che in Umbria non abbiamo, ma di questo ne
parleremo. Allora l’Ammiraglio mi chiedeva, a gran voce: «Sottotenente
cartografo, quale la rotta?»
Ed
io rispondevo: «Segua la stella Ammiraglio!»
Lo
ripetevo ogni volta, ma lui ogni volta me lo chiedeva, perché la fiducia che si
dà alle stelle si deve esperire ogni notte.
Sorgeva
ogni sera e non mancava mai, perché era il nostro riferimento e non a caso ne
avevamo fatta la nostra bandiera, sulla punta dell’albero maestro. L’aveva
cucita il padre di Marco, che era un sarto napoletano venuto qui per cercare un
tesoro, ma non lo aveva trovato. La
Dea della bellezza c’indicava la rotta imperturbabile e la
Regina Mari non navigava spinta dal vento ma tirata da quella stella.
Quando
possiedi una stella sai che nessun’altra è bella come la tua. Se l’ami.
III
Com’è stato già accennato il mare
noi non l’avevamo, al massimo lo immaginavamo, ma più che altro per noi il mare
era qualcosa di superiore, di astratto. Non astratto, mi correggo,
“concettuale” è la definizione giusta.
Uscivamo da scuola ed ogni
pomeriggio andavamo al mare; perché non eravamo adulti e quindi potevamo andare
al mare. Avevamo una stella nostra e già era una grande fortuna, ma avevamo
anche il nostro mare; perché non avevamo televisori e computer in quel secolo e
quindi potevamo avere il mare.
Appena fuori il recinto della
tenuta c’era un’enorme distesa di grano, e quando il vento spingeva la nostra
nave e gonfiava la vela lo vedevamo ondeggiare, perché così immaginavamo il
mare. E già ci sembrava immenso, il nostro mare privato; ma non troppo lontano
ne vedevamo un altro.
Il grande lago Trasimeno, anche
noi umbri volevamo la nostra parte di mare e il Creato ci aveva accontentato.
Lo vedevamo dal ponte e sapevamo che oltre le nostre acque tranquille di grano
c’era qualcosa di più.
Fra il dire ed il fare, per noi,
c’era di mezzo il Trasimeno. Allora sapevamo che se la nostra stella indicava
in quella direzione era perché non avremmo dovuto accontentarci, perché
potessimo cogliere la grandezza. Arrivammo a capire cos’è davvero il mare
allora, il lontano infinito da raggiungere. Il possibile da comprendere con
grande sforzo. La Potenza
e l’Atto insieme. Non bisogna mai accontentarsi delle proprie acque sicure, mai
rinunciare a guardare il mare; l’ho imparato sulla Regina Mari.
Bisogna tendere al mare, anche se
non si riesce mai a sfiorarlo; perché anche la nostra esistenza possa essere
immensa, prima o poi, come il mare. C’è dell’altro, e per essere veri ufficiali
di un vascello come la Regina Mari
non si può essere superficiali.
IV
Accadde un giorno una tempesta
che si portò via il sole e il cielo. Non era la prima volta che pioveva mentre
eravamo a bordo ma una nave non si ferma alla prima tempesta, se ha un
comandante di valore. Saremmo tornati a casa bagnati come pesci e le nostre
madri non sarebbero state indulgenti.
Tirava vento e la pioggia veniva
dal fianco della nave, l’Ammiraglio era al timone e urlava ordini agli uomini.
Io ero al riparo, indagando la cartina che avevo disegnato. Era come una
fotografia di quello che si vedeva dal ponte, ma non era come una fotografia in
realtà perché non esistevano ancora le fotografie. Mi chiese la rotta con tono
severo ma non riuscendomi ad orientare gli dissi solo di proseguire.
Non si accontentò di quella
risposta perché era un Ammiraglio e disse a tutti noi: «Uomini, andiamo a
cercare la nostra stella perduta, più in alto delle nuvole che la coprono,
siete con me?»
Aveva dodici anni, ma così parlò
e tutti si animarono, gli ufficiali diramavano ordini ed i marinai correvano da
prua a poppa. A quel punto successe una cosa che nessuno mai crederebbe. Il
terrazzo divenne un ponte, le mura laterali delle paratie, il lenzuolo una vela
sul suo alto albero e la nave si alzò davvero dal suo campo di grano per
iniziare a prendere quota.
Navigammo fino a fendere le nubi.
Nessuno pensa mai che oltre le nuvole c’è il limpido sereno in attesa e lì
ritrovammo la nostra stella.
Successe per davvero, perché non
avrebbero inventato i videogiochi per secoli ancora e noi capimmo che era lì ad
attenderci, la nostra stella che mai ci avrebbe abbandonato e noi dovevamo solo
renderci capaci di coglierla.
EPILOGO
Avrei mille storie da raccontare accadute a bordo, di quella volta che
affrontammo i predoni e di quando ci imbattemmo in un mostro marino, ma solo
una cosa ancora voglio aggiungere. Se le nostre avventure di mare non sono
state solo una finzione è perché sapevamo che non giocavamo a fare i marinai,
eravamo tali.
Quando tornavamo a casa, alla sera, non cambiava poi tanto perché non
ci teneva insieme l’entusiasmo del momento, era la convinzione che credendo a
quello che facevamo lo rendevamo possibile.
Tema
della Route Primaverile 2012 sul lago Campotosto
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