Per tutti i mozzi di primo pelo e quelli che soffrono il mal di mare.

Benvenuti a bordo!

Questo è il blog che ho aperto qualche anno fa per tenere gli appunti di qualcosa che ancora non sapevo e ancora non so. Nell'estate del 2014 ne è uscito un libro e si spera che presto ne esca un altro. Ha una pagina su Facebook dove possiamo rimanere in contatto (sono di buona compagnia e non sporco più di tanto).

Cap. NS

27 giugno 2012

La Regina Mari che navigò fino alla sua stella


Al Clan “Gran Sasso”- Agesci Te1,
perché sappia tendere al mare.



PROLOGO

Da piccolo ero bravo in geografia. A undici anni ho capito tutto della vita.

La mia storia inizia una mattina di nuvole, in un’aula di scuola, quando avevo undici anni ma non avevo ancora capito niente della vita; però avevo undici anni, e quindi non lo sapevo. Non so dire se la geografia fosse davvero la mia materia preferita, ma mi piaceva la professoressa. A lei non l’ho mai detto comunque. Un giorno disse: «Sergio vieni alla lavagna?»
Era una di quelle professoresse che ti chiamavano per nome e ti chiedevano se volevi andare all’interrogazione. Nessuno rispose mai di no, ma forse era possibile rifiutarsi se lei lo chiedeva. Non lo sapremo mai. Io mi sentii goffo nel mio grembiule così poco da adulto ma sapevo che c’era un modo per conquistarla come io soltanto sapevo fare in quella classe: conoscere la geografia.

Non ricordo ciò che mi chiese ma rammento quello che trovai, in mezzo al mio libro aperto sul banco, quando tornai al posto. Un biglietto strappato da un foglio di quaderno, piegato due volte. Ciascun banco era separato da quelli vicini, di modo che non si potesse chiacchierare con il compagno di fianco e non si potesse copiare. A undici anni sapevamo già cosa volesse dire copiare.

“Presentati alla casa abbandonata con le finestre verdi sulla strada del bosco oggi pomeriggio alle quattro e mezza. Vieni da solo e non parlarne a nessuno, ho una proposta per te. Ammiraglio A.E., Regia Marina.”

Avevo già due occhiali spessi così all’epoca e dietro i vetri, uno sguardo di meraviglia e timore allo stesso tempo. Chi era quest’Ammiraglio che si celava dietro ad una sigla? Quale proposta poteva avere per me? Avevo un solo modo per scoprirlo e decisi quindi che non avrei mancato l’appuntamento. Ripiegai con cura il biglietto secondo le pieghe originali perché già allora ero una persona ordinata e lo nascosi in tasca. Se la Marina aveva una missione da affidarmi i miei compagni di classe non potevano di certo saperlo. Non avrebbero capito, erano solo dei ragazzini.

Da piccolo ero bravo in geografia, lo ripeto, e cosa volesse un Ammiraglio della Marina di sua Maestà il Re d’Italia da un “uomo” di undici anni che in vita sua il mare non lo aveva mai visto, non potevo proprio immaginarlo.

I

Pedalai più forte che potevo, perché sapevo dov’era quel fabbricato; pensai più forte che potevo perché non conoscevo quello che mi aspettava. Uscii da casa come si sente un ladro, intimorito all’idea che mia madre potesse chiedermi dove stessi andando. L’Ammiraglio mi aveva chiesto di andarci da solo e di non parlarne a nessuno, e così feci, rispettando il primo ordine che avevo ricevuto.

Spinsi il cancello di ferro che portava due iniziali e cercando di inquadrare tutta la struttura in un solo sguardo notai un’insegna spezzata sulla porta: “Regina Mari”.
Bussai alla porta di legno e dall’interno sentii: «Chi va là?»
Infilai sotto il portone il biglietto che avevo trovato sul banco, la mattina stessa. Il rumore dei chiavistelli seguì e il cuore mi batteva a mille, riesco ancora a ricordarlo dopo tutti questi anni. Quando vidi Francesco e Piero armati di ridicole spade di legno non sapevo se essere deluso o cos’altro.
Erano due compagni di classe ma si presentarono aggiungendo al loro nome un grado di Tenente che a me sembrò improbabile. Capivo sempre meno di quello che stava accadendo. «L’Ammiraglio ti aspetta sul ponte, due piani più su.»
Mi disse il Tenente Francesco. L’Ammiraglio avrebbe saputo spiegarmi e quindi salii le rampe fino a una porta che dava sul tetto, ma non capivo perché l’avessero definito ponte.
L’Ufficiale che mi attendeva altri non era se non Antoine, un altro compagno di classe ripetente. Intuii che quella storia della Marina era un bluff.

«Benvenuto Sergio sulla mia nave, la Regina Mari, sono l’Ammiraglio Antoine e ti accordo il permesso di salire a bordo. Marinaio – chiamò un altro ragazzino che non conoscevo – raduna la ciurma, dobbiamo accogliere un ospite.»

Ad un certo punto si radunò sul terrazzo, ampio come un mezzo campo da calcio, un numero di ragazzi che conoscevo solo in parte. Non avevo molti amici allora. L’Ammiraglio mi presentò tutti, schierandoli in riga secondo i gradi che erano a loro attribuiti e mi spiegò che sulla sua nave mancava un cartografo, colui che conosce le carte e traccia la rotta e lui aveva pensato a me. Pensai che fosse un gioco, dopotutto avevo undici anni, ma quella come altre era una convinzione sbagliata.

Va detto che il terrazzo era addobbato davvero come un ponte di una nave con il meglio che i ragazzi avevano trovato qua e là, un lenzuolo faceva da vela su un albero maestro improvvisato con un tubo e c’erano cime dovunque, una fila di ciocchi su entrambi i lati del terrazzo erano i cannoni temibili ma la cosa più bella era un’altra.

Un coperchio di bidone legato al retro di una sedia. Il timone.

Fu così che iniziò il mio servizio a bordo della Regina Mari come Sottotenente e cartografo di bordo.

II

Fra le varie cose che ricordo di quell’esperienza ce n’è una in particolare che mi sembra la più poetica. Una cosa che ho imparato sulla Regina Mari è che la poesia, per fare un inciso, non bisogna cercarla; bisogna trovarla nelle cose che ci accadono intorno o che facciamo accadere. È questa una rotta sicura, per dare valore alle nostre vite. Nel buio c’è sempre un colore, anche se non si vede.

Tra l’equipaggio e gli ufficiali della nave nessuno aveva più di dodici anni e per questo motivo dopo le sette di sera (le otto durante l’estate) questo vascello non navigava più perché le madri erano a casa reclamando i figli appena si approssimava il buio.

Si sa però che esiste un indissolubile legame fra i marinai e le stelle. La poesia fu che all’equipaggio della Regina Mari era dato di conoscere una sola stella: Venere. Tecnicamente è un pianeta e forse qualcuno di bordo lo sapeva ma non importava, c’era dell’altro per noi. Tenevamo alla sostanza, come quella volta che tentando di disincastrare l’ancora da uno scoglio nel giardino un marinaio trovò l’altra metà dell’insegna sulla porta: “Regina Mario e figli, Colletti e Camicie ”, si leggeva ricomponendole. Non cambiò poi tanto comunque.

Insomma quello era l’unico astro luminoso che dal pomeriggio già si faceva strada nel cielo del tramonto e il solo che ci era dato di vedere e che sul far della sera si sarebbe perso nell’immensità del giardino celeste. Ma fin quando eravamo sul ponte della Regina Mari era chiaro quale fosse, era l’unica luce. Non si dovrebbe perdere mai una stella sicura e ciascuno dovrebbe trovare la sua. Avevamo questo rapporto intimo, che non è cosa comune per un uomo guardare in faccia una stella e dire: è la mia.
Era solo per noi ed era la più bella e ogni giorno l’Ammiraglio annunciava il suo arrivo, guardando dentro ad un cilindro di cartone e noi tutti ci fermavamo per renderle onore con il saluto militare. Questa è un'altra cosa che ho imparato sulla Regina Mari, l’Onore. Sta di fatto che Venere sorgeva dritta di fronte al timone; in direzione del mare che in Umbria non abbiamo, ma di questo ne parleremo. Allora l’Ammiraglio mi chiedeva, a gran voce: «Sottotenente cartografo, quale la rotta?»
Ed io rispondevo: «Segua la stella Ammiraglio!»

Lo ripetevo ogni volta, ma lui ogni volta me lo chiedeva, perché la fiducia che si dà alle stelle si deve esperire ogni notte.

Sorgeva ogni sera e non mancava mai, perché era il nostro riferimento e non a caso ne avevamo fatta la nostra bandiera, sulla punta dell’albero maestro. L’aveva cucita il padre di Marco, che era un sarto napoletano venuto qui per cercare un tesoro, ma non lo aveva trovato. La Dea della bellezza c’indicava la rotta imperturbabile e la Regina Mari non navigava spinta dal vento ma tirata da quella stella.

Quando possiedi una stella sai che nessun’altra è bella come la tua. Se l’ami.

III

Com’è stato già accennato il mare noi non l’avevamo, al massimo lo immaginavamo, ma più che altro per noi il mare era qualcosa di superiore, di astratto. Non astratto, mi correggo, “concettuale” è la definizione giusta.

Uscivamo da scuola ed ogni pomeriggio andavamo al mare; perché non eravamo adulti e quindi potevamo andare al mare. Avevamo una stella nostra e già era una grande fortuna, ma avevamo anche il nostro mare; perché non avevamo televisori e computer in quel secolo e quindi potevamo avere il mare.

Appena fuori il recinto della tenuta c’era un’enorme distesa di grano, e quando il vento spingeva la nostra nave e gonfiava la vela lo vedevamo ondeggiare, perché così immaginavamo il mare. E già ci sembrava immenso, il nostro mare privato; ma non troppo lontano ne vedevamo un altro.
Il grande lago Trasimeno, anche noi umbri volevamo la nostra parte di mare e il Creato ci aveva accontentato. Lo vedevamo dal ponte e sapevamo che oltre le nostre acque tranquille di grano c’era qualcosa di più.

Fra il dire ed il fare, per noi, c’era di mezzo il Trasimeno. Allora sapevamo che se la nostra stella indicava in quella direzione era perché non avremmo dovuto accontentarci, perché potessimo cogliere la grandezza. Arrivammo a capire cos’è davvero il mare allora, il lontano infinito da raggiungere. Il possibile da comprendere con grande sforzo. La Potenza e l’Atto insieme. Non bisogna mai accontentarsi delle proprie acque sicure, mai rinunciare a guardare il mare; l’ho imparato sulla Regina Mari.

Bisogna tendere al mare, anche se non si riesce mai a sfiorarlo; perché anche la nostra esistenza possa essere immensa, prima o poi, come il mare. C’è dell’altro, e per essere veri ufficiali di un vascello come la Regina Mari non si può essere superficiali.

IV

Accadde un giorno una tempesta che si portò via il sole e il cielo. Non era la prima volta che pioveva mentre eravamo a bordo ma una nave non si ferma alla prima tempesta, se ha un comandante di valore. Saremmo tornati a casa bagnati come pesci e le nostre madri non sarebbero state indulgenti.
Tirava vento e la pioggia veniva dal fianco della nave, l’Ammiraglio era al timone e urlava ordini agli uomini. Io ero al riparo, indagando la cartina che avevo disegnato. Era come una fotografia di quello che si vedeva dal ponte, ma non era come una fotografia in realtà perché non esistevano ancora le fotografie. Mi chiese la rotta con tono severo ma non riuscendomi ad orientare gli dissi solo di proseguire.

Non si accontentò di quella risposta perché era un Ammiraglio e disse a tutti noi: «Uomini, andiamo a cercare la nostra stella perduta, più in alto delle nuvole che la coprono, siete con me?»

Aveva dodici anni, ma così parlò e tutti si animarono, gli ufficiali diramavano ordini ed i marinai correvano da prua a poppa. A quel punto successe una cosa che nessuno mai crederebbe. Il terrazzo divenne un ponte, le mura laterali delle paratie, il lenzuolo una vela sul suo alto albero e la nave si alzò davvero dal suo campo di grano per iniziare a prendere quota.
Navigammo fino a fendere le nubi. Nessuno pensa mai che oltre le nuvole c’è il limpido sereno in attesa e lì ritrovammo la nostra stella.

Successe per davvero, perché non avrebbero inventato i videogiochi per secoli ancora e noi capimmo che era lì ad attenderci, la nostra stella che mai ci avrebbe abbandonato e noi dovevamo solo renderci capaci di coglierla.

EPILOGO

Avrei mille storie da raccontare accadute a bordo, di quella volta che affrontammo i predoni e di quando ci imbattemmo in un mostro marino, ma solo una cosa ancora voglio aggiungere. Se le nostre avventure di mare non sono state solo una finzione è perché sapevamo che non giocavamo a fare i marinai, eravamo tali.

Quando tornavamo a casa, alla sera, non cambiava poi tanto perché non ci teneva insieme l’entusiasmo del momento, era la convinzione che credendo a quello che facevamo lo rendevamo possibile.



Tema della Route Primaverile 2012 sul lago Campotosto

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